Origini e Tradizioni
In fondo al paese di Dro, verso Arco, era situato un capitello dedicato a Sant'Antonio di Padova. Attorno ad esso era fiorita una devozione popolare molto forte che coinvolgeva non solo Dro e Ceniga, ma anche "foresti" che accorrevano al capitello in pellegrinaggio per ottenere grazie e "miracoli".
Il santo veniva cercato e invocato soprattutto per la sua fama di guaritore. Secondo una leggenda popolare una madre avrebbe ottenuto dal santo la resurrezione del figlio con la promessa di dare ai poveri tanto grano quant'era il peso del bambino. Per questo, in un mondo in cui la mortalità infantile era una triste realtà quotidiana.
Come già accennato, spinta dalla grande devozione la
comunità di Dro aveva intanto chiesto il permesso di erigere una cappella al
posto del capitello situato all'inizio del paese. Il documento che testimonia
la delibera di trovare una collocazione più idonea all'immagine del santo porta
la data del 7 agosto 1661.
Quell'estate gli abitanti di Dro e Ceniga si radunano in pubblica regola nel "curtivo della casa della magnifica comunità (attuale canonica) sito in capo a detta villa" per prendere le ultime contestate decisioni. L'assemblea mugugna qualche malcontento e tocca al sindaco Gioan Bartolameoto prendere in mano la situazione ricordando i precedenti impegni.
Espone come sia già stata concessa licenza di fabbricare una cappella da parte dell'autorità ecclesiastica di Trento, basandosi sull'impegno della popolazione di realizzarla e mantenerla fornita di tutto il necessario secondo quanto ordinato dal signor Vicario di Trento.
Non tutti sono d'accordo: c'è chi,
spalleggiato dal Capitolo della Collegiata arcese, vorrebbe trasferire
l'immagine miracolosa nella chiesa curaziale di San Sisinio, dove del resto già
da antica data esisteva una cappella dedicata a Sant'Antonio, altri invece
sostengono la necessità di edificare un tempio consono nel luogo in cui
"al presente il capitello si trova e non altrimenti". Nella lite di
paese il sindaco si schiera per la costruzione del nuovo edificio e così anche
il proprietario del terreno su cui il capitello giace. Le
discussioni non cessano e per questo si indice
un referendum, ascoltando prima il parere dei presenti e passando poi di casa
in casa per raccogliere quello degli assenti.
Il seggio è presto costituito: il notaio si
ritira in un orto attiguo, alla presenza di testimoni registra le volontà
"ad uno per uno" degli astanti che ordinatamente passano davanti a
quell'urna improvvisata. A grande maggioranza i presenti "dìsseron e
reverentemente protestarono che se colà dove si ritrova non venirà fabbricata
la cappella non permetteranno che l'immagine sia altrove trasportata".
Lo stesso esito si ebbe quando diligentemente
il notaio, il sindaco, i consiglieri e i testimoni raccolsero i pareri di casa
in casa o addirittura, se capitava l'occasione, per strada.
Questo documento si trova nell'archivio
comunale "Miscellanee", anno 1661, 7 agosto.
Presa la decisione di edificare la cappella si diede
immediatamente inizio alla fabbrica, tanto che la prima pietra venne posta il
mese successivo, esattamente il giorno 11 settembre 1661. La comunità
miracolata e devota al santo cominciò ad offrire denaro, materiali, oggetti,
giornate di lavoro e quanto poteva servire per la costruzione.
Secondo la tradizione le offerte in denaro
venivano deposte nel "zoco", il contenitore di pietra che fungeva da
"cassaforte".
Per evitare possibili raggiri venne stabilito
che il "zoco" fosse chiuso con triplice serratura, e che le singole
chiavi venissero consegnate in mani diverse. L'arciprete di Arco, il curato e
il sindaco, che ne possedevano gli esemplari, dovevano dunque intervenire
assieme per aprire il salvadanaio. Ai soldi si aggiungono beni di altro genere:
spesso cose che i fedeli si sentono di donare per esternare la loro devozione.
La chiesa possiede inoltre qualche piccolo
legato, un fondo arativo, una porzione di casa in Dro, vincolata all'onere missario
a favore di un certo Marco di Varignano. Sulla base di queste entrate e delle
offerte straordinarie, perlomeno nelle sue strutture fondamentali, la chiesa
cresce rapidamente. Iniziata nel 1661 è quasi pronta nell'estate del 1667, come
appare dall'iscrizione posta sopra il portale d'entrata e da una lettera
indirizzata al Vescovo per ottenere la facoltà di affiggere tale
"cartiglio".
L'iscrizione è in latino e si può tradurre
pressappoco così: "Questa chiesa fu costruita per volontà della magnifica
comunità di Dro e Ceniga e per le elemosine dei più fedeli".
Questa devozione diffusa in tutta Europa circolava anche intorno al capitello di Dro, e numerosi erano i forestieri che ogni giorno vi si recavano per compiere le loro pratiche devozionali.
Nell'archivio comunale di Dro è conservato un documento che riporta una decisione presa dal sindaco di Dro Giacom Angeli e dai suoi consiglieri, letto alla presenza della comunità nella Casa Comunale il 3 maggio 1662.
Questo documento ha come titolo: "Capitoli da osservarsi al capitel de Sant'Antoní", e descrive come ci siano "fanciulli, huomini e donne, quali molestano li forestieri che ogni giorno vengono alla devotion del santo, dimandando l’elemosina a detti forestieri, con grave disturbo loro, diminuendo la devotione, e ciò apporta al nostro Paese più presto scandalo che edificatione", perché questo fatto dà occasione a questi forestieri di mormorar dappertutto di questo, come se a Dro ci fosse una estrema povertà e miseria.
Viene ordinato poi che chiunque sarà trovato a mendicare nei pressi del capitello o nel territorio che va dal capitello delle guardie fino a Sant'Abbondio, dovrà pagare "mezzo ducato per cadauno".
Il 24 febbraio "desiderando accrescere
maggiormente l'onore e la Gloria di Dio ad honore sempre di questo suo avvocato
e protettore" si diede mano al contratto con il lapicida Domenico Rossi detto il Manentino di Mori,
"Scultore e tagliatore professore di tall'arte", personaggio particolarmente attivo nella zona in quel periodo, come risulta dal contratto redatto e firmato il 24 febbraio.
Il contratto con l'artista proseguì anche per l'esecuzione della balaustra e di altri altari, la chiesa fu terminata alla fine del XVII secolo.
L'altare doveva essere fatto
secondo il disegno, "con tutti li fornimenti e abbassamenti, et portione
di detto altare".
Per il lavoro la comunità si impegnava a
pagare mille "ragnesi" ed una "castellada d'uva" in questo
modo, et cioè darli ragnesi cento all'anno... ma che detto Manentino sii
obbligato pigliare a buon conto almeno cento troni di robbe come mobili, uva,
formento o altre biade a comun prezzo per ciaschuna ratta o ver centenaro de
ragnesi sin che sarà pagato". Una clausola prevedeva "che gli uomini
di Dro fossero comunque obbligati a trasportare da Riva le pietre che il costruttore
avrebbe invece pensato a far condurre colà", nonché a mettere a
disposizione dell'artista "la casa della chiesa da poter abitare fin tanto
che lavorerà dette pietre".
E in effetti così avvenne, anche se il massaro
della chiesa dovette poi sborsare altri cento ragnesi perchè il
"Maestro" "pretendeva certi accrescimenti dì pietre messe in di
più in detto altare oltra il disegno... e altre mutate da bianco in macchia e
lustrade".
Al maestro vennero inoltre commissionate dalla
Confraternita della Fradaglia di Arco le balaustre in marmo che lo scultore
mise in opera per la somma di 600 troni, e successivamente il pavimento della
chiesa, per pagare una rata del quale i massari dovettero cedere un
"censo" (pezzo di terreno lavorato in affitto) alla Confraternita del
Santissimo Rosario di Dro.
La costruzione è semplice e lo stile sobrio, la pianta
è composta da una sola navata relativamente ampia e regolare, che qualche anno
più tardi verrà divisa dall'abside con due balaustre marmoree ed una cancellata
in ferro di pregevole fattura; la sacrestia è situata dietro all'altare.
La chiesa venne consacrata l'8 maggio 1673 dal
vescovo di TrenSigismondo Alfonso di Thun con l'intervento dell'arciprete di
Arco Biagio Fragiorgi e del curato di Dro Battista Tomasi.
Fin dall'ottobre 1667 la messa
provvisoriamente veniva celebrata sull’altare portatile. Presumibilmente
l'altare è di legno con solo la mensa e l'antipendio. Per il momento l'immagine
di S. Antonio è collocata nella cornice lignea del precedente capitello
(tuttora conservata dietro l'altare).
Per la consacrazione della chiesa anche la festa di
contorno fu grande e la popolazione sfruttò l'occasione per dimostrare in altri
modi la devozione al santo. C'era veramente di tutto nella lista delle vivande,
tanto da far salire il conto addirittura a 567 troni, 6 gazzette e 5 quattrini.
Leccornie non certo di uso quotidiano, tra le cibarie troviamo: "canelladi
e mandorle inzucherade e muschiade, capperi, anguilla salada, limoni, ravanelli
ed artichiochi, salame e mortadella, pignoli, mandorle ambrosine, sparesi,
pever, canela, garofoli, fior di nose moscade, pan di zuccaro, pignoli
inzucheradi, pasti di marzapan, mostaroni fini doratti, rosette, carne di
vitello, carne di manzo, carne de castrà, carne di capretto, capponi, pizzoni,
poine fresche, formai, ed altro ben di Dio. Non mancava naturalmente il vino:
233 mosse di un tipo e 102 di vernazza per oltre cento troni". Davanti a
tanto spreco e soprattutto alle richieste di rimborso presentate dal sindaco e
dai massari della chiesa al Vescovado, la cancelleria trentina rispose che si
era esagerato: "siamo bastevolmente informati che l'apparecchio
superfluamente allora fatto servì e fu consumato da diverse et molte persone
non appartenenti a noi nè all'atto della Visitazione".
Il "zoco" ormai posto ai piedi
dell’altare evidentemente continuava a buttare quattrini, di pari ai miracoli
del santo. Fu così che l'anno successivo, dopo aver preso informazioni,
"nel nome di nostro Signore e del Glorioso Sant'Antonio di Padova"
venne deciso di costruire un altare di "pietra viva e di machia" per
sostituire degnamente la prima mensa lignea.
Un' ultima interessante annotazione che emerge ancora
dal libro di Sant'Antonio, testimonia che il saldo del massaro Evangelista
Leoni, reso l'8 di agosto 1682, contempla una somma pagata al Maestro Carlo
Feraro dell'Albola per una cancellata: quasi sicuramente identificabile con la
bella opera artigianale tuttora situata sulle balaustre che delimitano il
presbiterio.
A partire dall'ultimo decennio del Seicento la chiesa
può dunque considerarsi ultimata anche per quel che riguarda l'interno.
La visita vescovile del 15 luglio 1694 non
evidenzia infatti particolari carenze se non nei paramenti e nella pulizia del
luogo. Viene raccomandato l'acquisto di due casule rosse e di una nera, di un
velo, di un messale da requiem, si invita a tenere pulite le vesti per le
funzioni nonchè a rimuovere le tele di ragno dalle pareti.
Si sollecita una disposizione più ordinata
degli ex voto collocati senza alcuna simmetria ed infine si invita a conservare
in un luogo più sicuro l'icona argentea esposta con pericolo di furto in
sacrestia
Si può notare in questo particolare come il generale Vendome fosse particolarmente devoto a S. Antonio. Grazie a questa devozione e all'aiuto umano Dro fu miracolosamente scampata dalla distruzione francese
Come Indicato nell'iscrizione incisa all'interno del mobile posto nella sacrestia, nel 1744 la chiesa è stata dotata di un mobile di pregio.
Dalla seconda metà del Settecento la chiesa di Sant'Antonio perde pian piano il tradizionale alone prodigioso, e pur rimanendo un luogo di notevole devozione si smette di parlare di miracoli. Gli atti visitali e i documenti successivi dell'archivio non fanno che una rapida menzione dell'edificio.
Tra il 1914 e il 1918 la chiesa, lambita dal tracciato dalla ferrovia logistica dell'esercito austroungarico, fu utilizzata come magazzino militare.
Come evidenziato nella foto a lato, prima dei restauri terminati nel 2005, era ancora presente il numero che lo identificava.